Graziano Graziani (29 Set 2003)

[Carta]

(...) Nel frattempo all’odore di pioggia si era mischiata nell’aria una strana eccitazione che scuoteva un po’ tutti. Qualcuno urlava senza un perché, e qualcun altro gli rispondeva. Poi a qualcuno venne un’idea semplice quanto bizzarra. Il display rotondo di un cellulare proiettò una luce blu elettrico sul monumento: con quel buio pesto era piuttosto visibile, e il cono di luce prendeva tutta l’ampiezza del portone d’ingresso. Il tipo cominciò a giocare con le ombre cinesi. C’è stato un boato di approvazione. Da più parti cominciarono ad applaudire con sempre maggiore entusiasmo gli animali che si avvicendavano sul muro. Poi qualcuno cercò di intonare una canzone, e altri cominciarono ad andargli dietro. Incominciammo a domandarci se per caso non ci fosse una chitarra in giro.


In quel momento si levò dal buio una musica ritmata e travolgente, e tutti cominciarono a domandarsi cosa stava accadendo. Come spuntando dal nulla una banda si era messa a suonare, lì, sotto le colonne del pantheon: dodici, forse quindici persone avevano tirato fuori trombe e clarini, sassofoni e tamburi e in men che non si dica avevano cominciato a suonare una musica dal sapore balcanico, radunando attorno a sé tutta la gente e il loro entusiasmo. In tanti ballavano come rapiti da quella sorpresa inaspettata, e battevano le mani tenendo il tempo. Quando la canzone finì la gente applaudiva e gridava, eccitata dalla bravura dei musicisti e da quella festa inaspettata, che era nata spontanea dal naufragio nel buio delle performance istituzionali. La contingenza e l’imprevisto regalava una magia particolare a quello che stava succedendo, che era quanto di più teatrale mi era capitato di vedere fino a quel momento. Un “evento” nel vero senso della parola.


La musica proseguì a ripetizione, i ritmi si alternavano, quelli più jazzati a quelli di sapore ebraico, quelli più lenti a quelli più danzerecci. L’acustica era perfetta, e rendeva quel concerto ancora più incredibile. La luce gialla a intermittenza di un camion per le pulizie stradali cominciò a illuminare la gente e i musicisti. I display variopinti dei telefonini facevano il resto. A un certo punto la banda attaccò quasi sommessamente un ritmo che tutti avevano subito riconosciuto. Le note di “bella ciao” attraversarono la notte romana riempiendo piazza della rotonda, e ci mettemmo tutti a cantarne a squarciagola le parole. La mente di qualcuno andò alle recenti uscite mussoliniane del presidente del consiglio, e cominciò a dire ad alta voce “Lo vedi quali sono i valori su cui si fonda questo cazzo di paese!”. Quando la canzone terminò la gente, spontaneamente, la riattaccò di nuovo, questa volta soltanto con la voce. La musica si aggiunse sul finale.


Meno rapidamente di com’era arrivato, il buio se ne stava andando, ma la cosa ci coglieva comunque di sorpresa: erano le sei e cominciava a schiarire, se così si può dire, visto che la pioggia non aveva intenzione di smettere. I musicisti pian piano cominciarono a rimettere gli strumenti nel fodero. Qualcuno andò a chiedere chi fossero, e se facevano parte dell’organizzazione della serata. “No – rispose uno dei ragazzi – ci andava solo di uscire e suonare un po’. Siamo la Titubanda. Facciamo le prove in un centro sociale sulla prenestina, se volete venire a sentirci…”. Nel frattempo la pioggia si era fatta meno insistente, e piccoli gruppi di persone cominciavano a incamminarsi per cercare un autobus o qualcosa di simile. Così com’era venuta quella nottata se ne stava andando, disfacendosi alle prime luci del giorno. Ce ne restava però ancora tutto il sapore in bocca e la sensazione attaccata alla pelle. Poi altra gente cominciò a dirigersi verso torre argentina, alle fermate degli autobus. Lo facemmo anche noi.