Marcello Jatosti [16 Lug 2004] Domenica 4 luglio Risveglio in due tempi. Mi drizzo nel sonno, m’inalbero con tutto il sacco a pelo, a sbirciare il tabellone dei punti-partita: l’orologio segna le otto e venti. Non vola una mosca. Probabilmente, nella fase REM i tromboni vanno avanti in sordina. Ricrollo. Quando finalmente riemergo da improbabili veleggiate musicali fra esotiche bellezze e panorami corallini, scopro che il caldo tropicale è dovuto all’ora, mezzogiorno inoltrato, col sole che batte dai finestroni della palestra. Sono in ritardo di circa un’ora. Ne perdo altra mezza cercando invano la spazzola, dopo la doccia. Uno sguardo alle chiome titubandiche mi convince a desistere: qua in mezzo, pettini e spazzole son merce rara quasi quanto gli orologi. Nel cortile di Chopin mi aspettano amici cari e preziosi. Giorgio, compagno di giochi di ligure infanzia, la prima bici senza rotelle, le compagnie, le ragazze, le militanze adolescenziali, il primo LP dei Led Zeppelin, Woodstock, Zappa, Coltrane, Jimi Hendrix, e avanti ancora, senza mai rompere il filo, un filo che oggi s’allaccia alla musica per banda, al teatro di strada. Strade che si ritrovano, da Toulouse a Montpellier, appena un paio di ore di macchina. Pranzo con loro, andando verso la spiaggia, con Giorgio e Joëlle, e con Iris ormai undicenne che m’insegna la canzone-scioglilingua del tatù (l’armadillo con la tosse). =>Alla spiaggia di Frontignan, comune gemellato con Gaeta, noto soprattutto per l’omonimo moscato (da bere freddo come aperitivo), ritrovo la titu e i banditi in generale di questo festivàl. Pochini, rispetto alla folla dell’anno scorso. Meno folla, meno follia. Il clima è più rilassato, quasi svogliato, oltretutto l’ora è canicolare e siamo nella fase digestiva. Iris mi trascina lo stesso in acqua per una battaglia con Matilde, coetanea figlia di Hervé dei Bakchich. Una faccia che non si dimentica, Hervé. Il sorriso, il baffetto sornione, il luccichio degli occhi. Giocherelloni, facciamo i cavalli marini per le sirenette che ci montano in groppa. Colpo di grazia per i miei polpacci ingranchiti. Verso le quattrro, i miei tolosani sono di rientro. Batto in ritirata, rifugiandomi fra i titubanditi che metodicamente stanno armando gli strumenti. Avevo ventilato sorprese per i neofiti del festivàl, ma la famosa baignade des fanfares si fa attendere. E allora, ancora una volta, la titu trascende se stessa, inforca fiati e tamburi e muove risoluta alla spiaggia, fellinianamente a cavallo di una ballata romana che la porta fino alla battigia… e poi in acqua, impavida e guappa, quasi strafottente, fino alla cintola con legni, ottoni e tutta la panoplia di sax spavaldamente offerti al salmastro. E’ il rito magico dell’acqua. Max immerge provocatoriamente la campana del trombone nell’onda torbida, e si scatena il delirio. Siamo noi i trascinatori di questo festivàl, forse un po’ stanco, forse un po’ blasé, dopo 9 anni ininterrotti di repliche, ma l’entusiasmo è altamente contagioso e il cerchio marino strombazza sempre più largo, sempre più forsennato. Fra schizzi e spruzzi va giù tutto il repertorio un po’ “cialtrone” (direbbero molti) dell’allegra brigata titubandesca, con infiniti chorus e infiniti assoli da offrire ai francesi, ospiti ormai della loro stessa festa, festa infestata dai festaioli della Capitale. L’apoteosi è l’assolo più spacchiuso offerto dal nostro Maestro palermitano, che raggiunge il climax improvvisativo al terzo giro di boa e volge in acqua in carpiato rovesciato con tutto il clarinetto di ferro (tanto proviene da una banda della Marina americana: 100 % waterproof!). Ora capisco perché ci amano tanto, a Montpellier. Siamo noi il vero motore della festa! Ben contagiati, i Kadors ci riportano alla colonia e sotto il tendone ci allietano fino al tramonto con il loro repertorio vario e raffinato. C’è anche un David Bowie, Spaceman, fresco di trascrizione, presumo, vedendo i molti col leggio sullo strumento. Si scaldano, i Kador, rosamundano, balcaneggiano e alla fine montano sui tavoli, partono in passerella, folleggiando e gigioneggiando a volontà. Col tramonto, s’approssima l’ora degli addii. Il tempo di asciugare il salmastro dagli ottoni, di alleviare schiene e polpacci tramortiti sotto le mani prodigiose di Max sax, e siamo agli scambi d’indirizzi, ai regalini. Scelgo soprattutto fanciulle, beandomi a livello strettamente visuale, per donare e diffondere il nostro ciddì sbandata, di confezione modesta ma di ben ricco contenuto musicale, spiego con orgoglio. E pubblicarelazionando affettuosamente fra festivàl e sbandata romana, giro di banda in banda finché abbordo la bombarda più bombastica e ambita, la fulgida Astrid. La quale sta al gioco e confida, fra i titu-leoni che pendono dalle sue labbra, come e qualmente la fanciulla francofona si sciolga e sdilinquisca al suono musicale dell’italico verbo, pronunziato con grazia virile e tenorile dai nostri più ganzi interpreti. Lo stesso effetto, aggiunge per dovere d’imparzialità, che produce la favella femminile d’accento ispanico sull’orecchio maschile dei nostri cugini transalpini. Erotismo-esotismo linguistici appagati, si monta sul torpedone, ma le dighe si son rotte, seppure in extremis, e la neo-titu-invaghita strappa il microfono pulmaniero ai deliri Triglieschi per favoleggiarci viaggi parigini e sbandamenti romani. Loro, intanto, le Ouiches Loraines, sono appena tornate da 15 giorni di tournée in Romania, sponsorizzati dall’ambasciata francese, alberghi e tutto. Bel viaggetto? Una pacchia. Solo un momento di panico: il pubblico linciaggio che han rischiato a Bucarest attaccando Mesecina, ignari dei delicati equilibri etno-politico-musicali che intercorrono in terra balcanica. Esauriti gli addii, cariche le stive di odoroso paté e di muscat ben ghiacciato, il torpedone si mette lentamente in marcia per il lentissimo viaggio di ritorno. La lentezza estrema del torpedone, la lentezza prudente degli autisti spossati, ebbri e giubilanti, la lentezza appagata dei nostri stessi pensieri, ci proietta in un nuovo vacuum spazio-temporale, complici gli additivi accumulati nella tre giorni. Fra rigurgiti di kazoo, dolci arpeggi brasiliani, pornocanzoni del Forestieri all’ukulele, la notte scivola via, a non più di sessanta chilometri all’ora, scivola via anche la Francia e per l’alba siamo di nuovo a Genova. Per un sonnacchioso, ma unanime, addio e un urrah ai nostri agguerriti irriducibili goderecci compagni milanesi d’avventura. Lunedì 5 luglio Ci vorranno almeno altre otto ore, ore da centellinare studiando l’esame di storia che Stefano sosterrà il giorno dopo, ore da consumare discutendo e ragionando di titubanda, di muri crollati, di nuove prime trombe e di futuri susafoni, di progetti ambiziosi e di nuove folli imprese, ore da mandar giù fra un autogrill e il successivo, fra il fondo del barattolone e i resti del moscato. Almeno altre otto ore fino al casello Ponzano Romano – Soratte, dove il sinceramente vostro vi abbandona per imbarcarsi su un’automobile che di li a poco fonderà il motore, riuscendo a malapena a raggiungere l’agognato rifugio campagnolo. E nella ritrovata pace campagnola, scrivere e dedicarvi questa breve, incompleta, soggettiva, ma veridica e genuina narrazione dei fatti, delle gesta e delle imprese che condussero una titubanda mai vista prima in quel paese della cuccagna che va sotto il nome di festivàl des fanfares, a montpellier. Poggio Mirteto, 15.07.2004 Tutte le puntate! 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